Dare la parola a chi perde la memoria. Curare con una conversazione felice chi da tempo è chiuso in un silenzio che lo allontana dalla vita. àˆ questa la scommessa di un nuovo approccio all’ Alzheimer, malattia degenerativa del cervello che, con il prolungarsi dell’età media, è sempre più diffusa: sono 500 mila i malati in Italia, fra 85 e 89 anni l’incidenza arriva al 40 per cento della popolazione.
Il deterioramento delle funzioni cerebrali (la ricerca farmacologica da anni è impegnata a trovare una terapia efficace per contrastarlo), con il progressivo decadere delle facoltà cognitive e l’incepparsi dei circuiti della memoria, rende difficile e deludente il dialogo fra il malato e chi si prende cura di lui. Il risultato è la rinuncia alla comunicazione verbale, il pregiudizio che fa dire a medici e parenti: «àˆ inutile conversare con i malati d’Alzheimer».
Ma se si abbandona la pretesa che la parola serva solo per trasmettere informazioni corrette, che il paziente non è più in grado di fornire, e si mette in primo piano il benessere creato da una conversazione piacevole, allora il dialogo con i malati può proseguire nel tempo con soddisfazione. «Le tecniche cognitiviste, cui si è affidata la cura dell’Alzheimer negli ultimi decenni, mirano a recuperare le funzioni perdute, ma spesso ciò crea angoscia nel malato che non riesce a rispondere correttamente a semplici domande sulla sua età . O a fare cose che ha sempre fatto, come il nodo alla cravatta» spiega Giampaolo Lai, psicoanalista. «Con l’approccio conversazionale ci rivolgiamo alle funzioni integre e presenti nel paziente, come la capacità d’intrattenere una conversazione dove le regole della cortesia, di dare e prendere la parola a tempo debito, sono rispettate».
Lai ha introdotto in psicoanalisi il concetto e la pratica del conversazionalismo, illustrato in un omonimo saggio per Bollati Boringhieri, che assegna un’importanza particolare al linguaggio dei pazienti partendo dal testo, da frammenti di conversazioni professionali registrate e trascritte. Lo scopo è restituire centralità all’individuo e l’autostima.
A partire dal 1999 il conversazionalismo è applicato allo studio e alla terapia dei malati d’Alzheimer. «Il nostro obiettivo è quello di avere conversazioni felici con i pazienti, aiutandoli a conservare il più a lungo possibile l’uso della parola» dice Pietro Vigorelli, medico e psicoterapeuta, responsabile dell’Uos di medicina riabilitativa all’ospedale San Carlo di Milano, che ha sperimentato la forza terapeutica di questo approccio. «Il malato non viene nà© giudicato nà© corretto o interrotto, non fallisce mai, non si sente inadeguato».
Il lavoro suo e di una ventina di colleghi (fra gli altri: Pierrette Lavanchy, Salvatore Cesario, Andrej Zuczkowski, Isabella Gabrielloni ed Emanuela Lo Re) è stato appena pubblicato da Franco Angeli, con il titolo Parole da medicare. Un testo utile a chi, medici, familiari, infermieri, intenda collaborare a mantenere sveglia la capacità di dialogo del malato di Alzheimer. Poche le regole: evitare di porre domande precise, interrompere l’interlocutore o completare le frasi al suo posto, cercare invece di restituire al paziente il motivo narrativo del suo dire. «àˆ importante lasciarsi trascinare nel mondo possibile di chi ci sta di fronte, non imporgli il nostro» conclude Lai.
L’analisi dei testi delle conversazioni, registrati e trascritti, darà ai terapeuti la possibilità di una valutazione attraverso alcuni indicatori come il tasso dei nomi: più alta è la percentuale di sostantivi sul numero totale delle parole, migliore è la qualità del testo. Il malato stesso realizza quando il conversare gli ha portato felicità . «àˆ la cosa più bella, aver parlato col dottore» esclama Enrico al termine di una conversazione di gruppo con altri quattro pazienti.
Fonte: Panorama