Saturday, November 23, 2024

Il potere d’acquisto di 3 milioni e 900 mila pensionati che percepiscono un assegno lordo mensile a partire dai 1.200-1.300 euro, è stato falcidiato dall’inflazione negli ultimi vent’anni. I dati, elaborati in uno studio messo a punto dall’ex presidente dell’Inps Gianni Billia sulla base di cifre assai attendibili, raccontano la frana del potere d’acquisto delle pensioni italiane negli ultimi 18 anni: è il bilancio di un italiano che è andato in pensione nel 1987 e oggi è intorno agli 80 anni. Una parte della popolazione rilevante, quella degli “over 65″ destinata a contare sempre di più in termini demografici.
Un esempio numerico, che per comodità  di comprensione tracciamo con le vecchie lire, indica che una pensione che nel 1987 ammontava a 13 milioni di lire lorde annue, nel 2004 è arrivata a 25 milioni e 900 mila lire. Se la pensione si fosse rivalutata completamente, tenendo conto dell’aumento totale dell’inflazione nel corso dei 18 anni in questione, avrebbe raggiunto i 26 milioni e 200 mila lire: mancano dunque all’appello di quest’anno circa 300 mila lire. Si calcola che durante i 18 anni in questione la perdita è stata di 3 milioni e 152 mila lire.

Lo stesso esempio può essere fatto guardando l’assegno mensile: chi percepiva nel 1987 una pensione di un 1 milione e 4 mila lire lorde al mese, quest’anno dovrebbe percepire un assegno di 2 milioni e 15.893 lire al mese: invece mancano all’appello 22.490 lire al mese. Se si guarda ai redditi più alti il fenomeno assume toni più preoccupanti. Chi prendeva nel 1987 una pensione di 40 milioni lordi all’anno, pari a 3 milioni e 89 mila lire al mese lorde, oggi prende 72 milioni e 653 mila lire annui lordi, pari a 5 milioni e 588 mila lire mensili lordi. Se l’indicizzazione fosse stata piena avrebbe preso 80 milioni e 635 mila lire all’anno, dunque si trova 614 mila lire in meno nell’assegno mensile. Se si calcola la sua intera vita da pensionato, lo Stato gli ha tolto ben 78 milioni e 500 mila lire.

Quali i motivi di questo fenomeno che rischia di avere i contorni una vera e propria frattura del patto tra Stato e pensionati? Il principale è che le pensioni, come accennato, non vengono aumentate tutte in base al 100 per cento dell’inflazione: questo privilegio è riservato soltanto alla fascia più povera, cioè quella che arriva fino a circa 31 milioni lordi di vecchie lire lorde all’anno per il 2004. Se invece si va più in alto la copertura dagli effetti dell’inflazione si riduce al 90 per cento tra i 31 e i 51 milioni di lire lordi all’anno e al 75 per cento oltre i 51 milioni sempre di vecchie lire. I soggetti sottoposti all’indicizzazione ridotta sono circa 4 milioni: cioè i più tartassati.

Questo sistema fu reso necessario nel 1983 per motivi di finanza pubblica, ma oggi di fronte alla prospettiva di un nuovo rinfocolarsi dell’inflazione rischia di essere punitivo per coloro che hanno una indicizzazione parziale, al 90 o al 75 per cento. Senza contare che l’aumento dell’inflazione fa automaticamente entrare molti pensionati sotto la scure di aliquote fiscali più alte: basti pensare che il prelievo Irpef sul monte-pensioni è salito dal 4,7 per cento del 1985 al 12,7 del 2000. Il problema delle pensioni medie e del loro potere d’acquisto si è aggravato con provvedimenti che hanno ulteriormente sterilizzato gli assegni più alti: per il 1998 sono state escluse totalmente dalla perequazione le pensioni superiori a 5 volte il minimo (circa 3,5 milioni lordi al mese); per il biennio 1999-2000 la copertura dall’inflazione per le pensioni tra 5 e 8 volte il minimo è stata ridotta al 30 per cento e per quelle che superavano 8 volte il minimo è stata esclusa completamente. La questione è sotto gli occhi di tutti almeno dal 1995: quando la riforma Dini, in una norma programmatica, invitò i governi futuri a indicizzare le pensioni, oltre che all’inflazione, anche alla dinamica delle retribuzioni.

Fonte: Repubblica