A sette anni dalla realizzazione dell’indagine Censis «La mente rubata. Bisogni e costi sociali della malattia di Alzheimer», di nuovo in stretta collaborazione con l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA), e con il supporto di Janssen-Cilag, Lundbeck, Novartis e Pfizer, il Censis ha inteso ritornare ad indagare il punto di vista di chi cura i malati di Alzheimer diagnosticati e non istituzionalizzati per analizzare la loro attuale condizione, i mutamenti nell’assetto di offerta, nell’insieme dei bisogni e delle aspettative dei pazienti e delle loro famiglie e nei costi economici e sociali connessi alla malattia.
E, di questi ultimi,il confronto con la stima sui costi sociali della malattia di Alzheimer effettuata nella precedente ricerca, considerando l’insieme dei costi diretti a carico delle famiglie rilevati nel 1999 (che rappresentano com’è noto effettivi esborsi monetari per l’acquisto di servizi e prestazioni) evidenzia nel 2006 un significativo incremento in valore reale (i valori in lire del 1999 sono stati rivalutati in euro a prezzi 2006) passando dal corrispondente di circa 6.300 euro a poco più di 10.600 euro.
Secondo le stime più recenti attualmente in Italia i malati di Alzheimer sono circa 520mila e i nuovi casi sono stimabili in circa 80mila all’anno. Si tratta di un dato destinato ad aumentare: se consideriamo l’attuale andamento demografico e il conseguente invecchiamento della popolazione possiamo prevedere, infatti, che nel 2020 i nuovi casi di demenza saliranno a 213.000 l’anno, di cui 113.000 attribuibili all’Alzheimer.
L’opzione metodologica che sostanzia lo studio realizzato pone l’accento sulle valutazioni fatte dalle famiglie a partire da situazioni e problematiche concrete, si è scelto quindi di realizzare una nuova indagine su un campione di caregiver (la persona che è responsabile della cura del malato e che è il punto di riferimento prevalente dell’assistenza), che rappresenta l’interlocutore privilegiato per l’analisi delle esigenze del malato, delle aspettative nei confronti del sistema dei servizi e dell’impatto della malattia sulla famiglia e sul sistema sanitario nel suo complesso.
Dalle indagini è emersa una situazione per molti aspetti migliorata in cui, a differenza del «quasi-deserto» dei servizi registrato nel 1999, si riscontra la presenza di un centro di riferimento unico per la malattia di Alzheimer rappresentato dall’UVA (Unità di Valutazione Alzheimer): nel 66,8% dei casi i pazienti frequentano l’UVA e per poco meno della metà (47,6%) queste rappresentano il punto di riferimento unico per il trattamento della malattia.
Inoltre, la quota più alta del campione, pari al 41,1%, ha ottenuto la diagnosi da un’UVA (si tratta naturalmente di pazienti diagnosticati dopo il 2000); una significativa variazione nell’accesso alle terapie farmacologiche, legata non tanto all’aumento dei pazienti trattati con inibitori dell’acetilcolinesterasi (AChE-I) (che passano dal 52,0% al 59,9%, concentrata tra i pazienti ad uno stadio lieve-moderato della patologia) quanto ad un significato spostamento del carico economico.
Nel 1999 i farmaci erano a totale carico delle famiglie, mentre attualmente ad ottenere i farmaci gratuitamente è il 94,2% di quanti vi ricorrono. Il 24,9%, poi, ricorre ai Centri diurni a fronte di poco meno dell’8% del 1999 (il 30,0% nelle regioni del Nord Italia, la quota scende al 25,1% in quelle del Centro e si ferma al 10,7% al Sud e nelle Isole).
Secondo la ricerca del Censis, inoltre, aumenta anche la quota di chi usufruisce dell’Assistenza Domiciliare, socio assistenziale, integrata o di entrambe anche se, complessivamente si tratta di meno di un paziente su cinque (il 18,5% contro il 6,1% del ’99).Comunque tra le due ricerche emerge un aumentato ricorso alle badanti.
Le famiglie di pazienti che al momento dell’intervista hanno dichiarato di avvalersi dell’aiuto delle badanti sono complessivamente il 40,9% del campione, con una prevalenza (24,4%) di situazioni in cui la badante convive con il paziente (la domanda faceva riferimento al fatto di dormire nella stessa casa), mentre nel 16,5% dei casi la badante vive altrove.
Si tratta in prevalenza di badanti straniere, presenti nel 32,7% del campione complessivo, contro l’8,2% di famiglie nelle quali la badante è italiana.
Fonte: http://qn.quotidiano.net